Vendo 100 marchi ‘ecologici’ , telefonare ore pasti
di Giulio Ghisolfi
La sostenibilità sembra più un etichettificio che una cosa seria: se non si mette ordine e non si abbassa la febbre da logo, si scade nel ridicolo.
Immaginate che la sostenibilità sia un oceano e che in questa landa siano disseminate decine di arcipelaghi, composti a loro volta da centinaia di atolli. Ogni atollo è un marchio di qualità sostenibile o ecologico. Siete naufraghi e, stanchi di navigare, vorreste approdare su un’isola: quale scegliereste? Perché sono così tanti? Vi sono norme e regolamenti, nazionali e internazionali, che identifichino quelli corretti e importanti e regolino la loro proliferazione? E soprattutto, perché tutti continuano a produrne di nuovi? Sono così necessari? Sono efficaci?
Simboli muti
Sospendiamo per un attimo le domande sulla quantità e puntiamo alla qualità: capire il significato di uno solo è già un’impresa nell’impresa per gli addetti ai lavori, figuriamoci per il consumatore finale. Un’inchiesta condotta nel 2005 dalle associazioni europee dei consumatori evidenziava proprio la difficoltà di interpretare i simboli (molti criptici e incomprensibili), di sapere se i marchi sono volontari od obbligatori e, soprattutto, di valutare validità e utilità.
Per di più, la quantità elevata au-menta le difficoltà di comprensione: i loghi di tipo ambientale, insieme a quelli relativi alla sicurezza, al settore tessile e alimentare, sono oggi, solo in Italia, più di 100.
Basta interrogare un motore di ricerca al menù ‘immagini’ usando come paro la chiave ‘loghi ambientali’ oppure ‘loghi sostenibilità’ ed ecco apparire centinaia di marchi simili ma differenti per grafica, colore e linguaggio segnico; si capisce che non sono normalizzati, che vengono utilizzati spesso inopportunamente, senza alcun tipo di controllo e reale corrispondenza a dati verificabili, sulle confezioni di vari prodotti di largo consumo commercializzati liberamente sul mercato nazionale e internazionale.
Interessi oscuri?
La domanda è ‘com’è possibile che in una nuova materia così importante ci sia così tanta anarchia? E soprattutto, come mai è così difficile sapere chi se ne deve/dovrebbe effettivamente occupare?’
La risposta sorprendente è che nessuno lo sa con certezza o meglio: nessuno vuole apparentemente regolamentarli, normalizzarli e controllarne la veridicità secondo norme, regole e principi universalmente condivisi.
Di solito un marchio di qualità, dopo la sua registrazione, viene protetto e controllato da un ente emanatore; questi, prima di consentirne l’applicazione sulla confezione, verifica dalla documentazione in possesso che effettivamente rispetti i principi regolamentati dalla relativa normativa e/o dalla disposizione.
Incredibile ma vero, ho cercato invano di sapere chi sono gli enti preposti, ma nella maggior parte dei casi non ci sono o non si sa chi siano!
Pensavo che, almeno per quanto riguarda i marchi che devono identificare la sostenibilità e la gestione a fine vita degli imballaggi, fosse il CONAI e/o i singoli consorzi di filiera che lo costituiscono (COREPLA, COREVE, COMIECO, CIAL, CNA, RILEGNO) a doverli rilasciare e gestirli, anche perché è loro preciso interesse gestire la raccolta e lo smaltimento a fine del ciclo, ma a quanto pare non è affatto così.
I marchi ecologici, o etichette ambientali, applicati sulle confezioni relativamente al materiale da imballaggio non possono essere lasciati al caso e sono uno strumento indispensabile per poter indirizzare correttamente le scelte dei consumatori finali, che possono così diventare consapevoli protagonisti e contribuire alla salvaguardia dell’ambiente in modo attivo e concreto.
Tre grandi famiglie, no: due!
I marchi/etichette ecologiche si possono suddividere sostanzialmente in tre grandi categorie: obbligatori, volontari (comprese le autodichiarazioni) e quelli di fantasia. Con mia grande sorpresa, ho scoperto che non vi sono etichette ambientali obbligatorie.
Speravo almeno che l’Ecolabel, la cosiddetta ‘margherita europea’, aiutasse imprese e cittadini a chiarirsi le idee sugli aspetti ambientali dell’imballaggio: non solo non è obbligatorio, ma non prevede nemmeno obbligatoriamente che le imprese dimostrino miglioramenti ambientali
sul packaging. Quindi, relativamente al nostro campo d’intervento, questo marchio è doppiamente inutile.
Invece, per quanto riguarda la categoria marchi ed etichette ecologiche volontari, ne troviamo alcuni molto conosciuti e diffusi, ma a mio avviso fondamentalmente inutili.
Simbolo internazionale dei materiali riciclabili
Sicuramente il logo più diffuso e conosciuto a livello planetario, quando si parla d’imballaggi, ma allo stesso tempo forse il più misterioso, incomprensibile e inutile, è quello relativo all’indicazione che un manufatto è riciclabile oppure contiene materiale da riciclo: è il cosiddetto ‘ciclo di Mobius’, usato spesso impropriamente quando all’interno vengono inserite sigle identificative dei materiali. Se privo di indicazioni, dichiara che il contenitore è riciclabile. Se all’interno del triangolo è riportata una percentuale, si vuole indicare la quantità di materiale riciclato che è stata usata per realizzare il prodotto, ma qui si crea confusione con la prima versione: insomma, questo simbolo significa riciclabile o riciclato? Come si fa a usare la stessa grafica per indicare due caratteristiche così differenti? La presenza di questo logo sul prodotto indica solo un dato tecnico, industriale, non un valore di sostenibilità.
Per esempio, se il PET di riciclo viene da 3mila km di distanza dallo stabilimento di produ
zione delle preforme? Se il materiale di riciclo viene da processi di trattamento non conformi? Di obiezioni ce n’è per così, questo marchio non dice un granché.
Non dice neanche chi controlla questa asserzione!
Simbolo contro il ‘littering’
Il famoso pittogramma del cestino con l’omino che getta dentro qualcosa è universalmente diffuso.
La sua funzione è ricordare un obbligo di legge: vietato abbandonare nell’ambiente, ma riporlo in contenitori appositi, che non sono necessariamente per la raccolta differenziata, però. Tuttavia, c’è da chiedersi se nel 2012 si debba ancora indicarlo.
Non serve a niente e ruba spazio a indicazioni più utili.
Il Punto Verde
In tedesco Der Grüne Punkt, è un logo utilizzato per individuare un particolare sistema per lo smaltimento degli imballaggi dei beni di consumo. Il simbolo è composto da due frecce intrecciate tra loro che for-mano un cerchio. Il Punto Verde individua chi si occupa della raccolta e dello smaltimento del rifiuto, mentre non specifica niente riguardo alla riciclabilità del prodotto o alla presenza di materiale riciclabile.
Il simbolo è stato introdotto inGermania nell’oramai lontano 1991 dalla Duales System Deutschland GmbH (DSD) a seguito dell’introduzione di una normativa sui rifiuti che imponeva ai fabbricanti di occuparsi anche dello smaltimento finale dei propri prodotti.
Per aiutare i produttori a rispettare la norma è nato perciò un sistema di raccolta dei rifiuti privato, parallelo a quello pubblico, destinato a raccogliere e a smaltire i prodotti delle aziende aderenti a esso.
Queste ultime appongono quindi “Il Punto Verde” sui propri prodotti in modo da far sapere al cliente finale che la confezione sarà raccolta e smaltita dal sistema DSD (ad esempio, tramite gli appositi cassonetti). Il sistema del Punto Verde riguarda anche i produttori esteri ed è per questo motivo che lo si conosce anche in Italia. La legge tedesca sui rifiuti prevede infatti che per i prodotti importati da stati europei, l’importatore e il fabbricante straniero siano entrambi responsabili dello smaltimento dei rifiuti connessi. I produttori esteri possono quindi aderire anch’essi al sistema. Dalla Germania questo sistema di raccolta dei rifiuti si è poi esteso ad altri 32 Paesi (tutti i Paesi dell’Unione Euro-pea esclusa la Danimarca; in più Norvegia, Islanda, Ucraina, Croazia, Serbia, Turchia e Canada) per mezzo della società PRO Europe (Packaging Recovery Organisation Europe), a cui la DSD tedesca ha concesso l’uso del marchio nel 1995.
Questo logo in realtà non significa nulla per il consumatore: non indica necessariamente né un prodotto riciclabile né riciclato. Siamo arrivati a 3 marchi (4 se per caso il prodotto ha l’Ecolabel) e li potete tranquillamente trovare tutti riprodotti su una singola confezione. Però, non abbiamo ancora capito cosa dobbiamo o possiamo fare a fine vita.
Alla faccia della comunicazione semplice e corretta imposta dalla Direttiva europea!
Ma andiamo avanti con i volontari, non è finita.
Simboli dei materiali
Le tre frecce disposte a triangolo con senso orario sono il simbolo più diffuso per indicare il materiale costituente l’imballaggio. Tal quale, o corredato all’interno di una ‘R’, indica la riciclabilità (in conflitto con il ciclo di Mobius, però). Spesso all’interno riporta o una sigla o un numero; la sigla indica il materiale, il numero (codificato da una Direttiva europea del 1997) anch’esso il tipo di materiale (e già qui vediamo due modi differenti di usarlo).
Esiste anche una terza versione ‘nostrana’: un cerchio o un esagono. I numeri dall’ 1 al 7 che vi si possono trovare sono i più comuni e indicano il tipo di plastica:
1-Poliestere (PET)
2-Polietilene ad alta densità (HDPE)
3-Polivinilcloruro (PVC)
4-Polietilene a bassa densità (LDPE)
5-Polipropilene (PP)
6-Polistirolo (PS)
7-Altri tipi di plastica (O= Other)
Comunque lo si riproduca, potrebbe essere utile per il consumatore alle prese con la raccolta differenziata, ma di per sé non è un’indicazione che il materiale è riciclabile. Questo triangolo non è un logo, ma una codifica che dovrebbe essere conosciuta da tutti e insegnata nelle scuole, come il codice stradale! Senza la conoscenza dei materiali utilizzati per confezionare il prodotto, come si può differenziare, riciclare e smaltire i rifiuti in modo logico e conveniente? Per consentire agli addetti ai lavori di testare la propria conoscenza e la confusione che regna sovrana sull’efficacia della comunicazione di questi simboli, invitiamo a indovinare cosa significa la sigla ‘PI’ dentro un esagono.
Un logo emergente
Unitamente ai loghi volontari tradizionali e più conosciuti, nel corso degli ultimi anni se ne sono affermati di nuovi che complicano ancora di più la situazione. L’ultimo e più importante nell’ordine di tempo è quello relativo al materiale compostabile.
I prodotti in plastica vengono definiti compostabili se rispettano correttamente lo standard europeo armonizzato EN 13432. Questa norma è applicata soprattutto per i prodotti finiti, in particolare per sacchetti di plastica (shopping bag) e per i piatti monouso, ma è naturalmente estesa e valida per gli imballaggi e include anche gli inchiostri e i pigmenti chimici utilizzati, che devono esse-re anch’essi compostabili. Gli standard inclusi nella norma pongono dei limiti sui tempi di biodegradazione e su che cosa di materiale residuo non-compostabile può rimanere. Il problema anche in questo caso è che mancano i controllori di questi parametri (non esiste un’autorità pubblica, nazionale e/o internazionale, non soggetta a controlli, deleghe, relazioni economiche provenienti da chi produce materiali e manufatti compostabili) e soprattutto non è chiaro come devono es-sere gestiti gli imballaggi che riportano questi marchi: possono o devono essere gettati nell’umido? È un obbligo o una facoltà?
I nuovi loghi di fantasia
Capisco che sul pianeta terra vi siano non meno di 100mila fra grafici, art director, cre
vono arrivare a fine mese: sinceramente potremmo coinvolgerli in progetti più utili. Mi riferisco allo tsunami di piedoni, alcuni fra l’altro con evidenti segni di piedi piatti, rubinetti che gocciolano, alberelli e foglie svolazzanti rigorosamente blu o verdi, o tutti e due. Questo è il campo del puro arbitrio, dell’assenza di sostanza, di un muro informativo invalicabile, senza contare i marchi equivoci riferiti alle presunte proprietà sostenibili del prodotto, non dell’imballaggio, che tuttavia per osmosi ammantano di ecologia tutto il prodotto, confezione compresa; o quantomeno insinuano il dubbio ‘ma se è eco il prodotto, perché l’imballaggio no?’
Consigli operativi
Per cercare, dal disordine e dalla confusio-ne della realtà, di trarre qualche indicazione utile e operativa, ritengo intelligente, facilmente comprensibile ed intuitiva la classificazione CONAI che permette di identificare le tipologie di risparmi che l’imballaggio consente nei confronti dell’ambiente, anche se il consumatore non saprebbe come valutare esattamente il vero impatto ambientale e soprattutto non sarebbe in grado di raffrontarlo con le altre tipologie d’imballaggio. For-se si potrebbe fare un ulteriore passo (non un piedone però, per carità) utilizzando uno schema di comunicazione condiviso, semplice, riconoscibile: quello dell’etichetta energetica usata per classificare gli elettrodomestici. È a prova di cretino, immediata, chiara, supportata da un unico standard. Direi che con un po’ di buona volontà ce la potremmo fare anche noi nell’imballaggio. Perché gli enti preposti (CONAI in primis, ma non solo) non hanno mai pensato di prendere l’iniziativa al riguardo?
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